Parte seconda.
Capitolo 6
†
Ottaviano in Occidente 40 a.C. - 39 a.C.
Sembrava tanto vecchia e stanca, la sua amatissima Signora Roma. Dal punto in cui sostava in cima alla Velia, Ottaviano riusciva a scrutare nel Foro Romano e più oltre verso il Colle Capitolino; se girava il viso dall’altra parte, riusciva a guardare dalla parte opposta delle Palus Ceroliae per tutta la Sacra Via sino alle Mura Serviane.
Ottaviano amava Roma con un’ardente passione estranea alla sua indole, che tendeva a essere fredda e distaccata. Ma la Dea Roma, lui riteneva, non aveva rivali sulla faccia della terra. Come detestava sentir dire da questo che Atene l’aveva messa in ombra come il sole con la luna, da quello che Pergamo al suo apogeo era molto più incantevole, e da quell’altro che al confronto di Alessandria sembrava un oppidum gallico! Era forse colpa sua se i suoi templi erano fatiscenti, gli edifici pubblici sudici, le piazze e i giardini trascurati? No, la colpa era degli uomini che governavano in suo nome, perché avevano più a cuore la propria reputazione di quanto avessero a cuore lei, che li aveva creati. Meritava di meglio, e se lui avesse potuto fare qualcosa in merito, avrebbe avuto di meglio. Naturalmente c’erano delle eccezioni: la gloriosa Basilica Giulia di Cesare, quel capolavoro che era il suo foro, la Basilica Emilia, il Tabularium di Silla. Ma anche in Campidoglio, i templi maestosi come quello di Giunone Moneta avevano un gran bisogno di una rinfrescata alla tinta. Dalle uova e i delfini del Circo Massimo ai santuari e le fontane dei crocevia, la povera Dea Roma era malandata, una gentildonna in declino.
Se solo avesse avuto un decimo del denaro che i romani avevano sperperato per guerreggiare l’uno contro l’altro, la bellezza di Roma non avrebbe avuto rivali, pensava Ottaviano. Dove finiva tutto quel denaro? Una domanda che gli veniva spesso in mente, e per cui aveva una sola risposta adeguata, una risposta erudita: nelle tasche dei soldati per essere speso in cose inutili o accumulato a seconda della loro natura; nelle tasche di manifatturieri e mercanti che traevano profitto dalle guerre; e nelle tasche degli stessi uomini che quelle guerre le muovevano. Ma se quest’ultima corrispondeva alla verità, si domandava, perché io non ne ho tratto alcun profitto?
Prendiamo Marco Antonio, proseguirono le sue riflessioni. Aveva rubato centinaia di milioni, più per restare al passo del suo stile di vita edonistico che non per pagare le sue legioni. E quanti milioni aveva sciorinato ai suoi cosiddetti amici per fare il grand’uomo? Oh, anche io ho rubato… me ne sono andato con il fondo di guerra di Cesare. Se non l’avessi fatto, oggi sarei morto. Ma a differenza di Antonio, io non ho mai buttato via un centesimo. Quello che attingo dal mio tesoro nascosto mi aspetto di vederlo fruttare, come accade con il pagamento della mia armata di agenti. Senza i miei agenti non posso sopravvivere. La tragedia è che non oso spendere nulla per Roma in sé. La parte più consistente serve a pagare le ingenti gratifiche delle legioni.
Un pozzo senza fondo che forse ha un solo vantaggio reale; distribuisce la ricchezza personale in maniera più equa rispetto ai vecchi tempi, quando i plutocrati si contavano sulla punta delle dita di due mani e i soldati non disponevano d’un reddito sufficiente ad appartenere neanche alla Quinta Classe. Ma non è più così.
La vista del Foro si offuscò mentre i suoi occhi si velavano di lacrime. Cesare, oh, Cesare! Quanto avrei potuto imparare se tu non fossi morto? È stato Antonio a permettere a quella gente di ucciderti… lui faceva parte del complotto, lo so fino al midollo. Ritenendosi l’erede di Cesare e avendo urgente necessità del suo vasto patrimonio, aveva ceduto alle blandizie di Trebonio e Decimo Bruto. Gli altri, Bruto e Cassio, erano delle nullità, semplici figure decorative. Come molti prima di lui, Antonio smania di essere il primo uomo di Roma. Se non ci fossi io, lo sarebbe. Ma io ci sono, e lui teme che io possa usurpare il titolo così come il nome di Cesare, il denaro di Cesare. Ha ragione ad aver paura. Cesare il Dio, il Divus Julius, è al mio fianco. Se Roma vorrà prosperare, io devo vincere questo conflitto! Eppure ho giurato solennemente di non andare mai in guerra contro Antonio, e manterrò quel giuramento.
Lo zefiro d’inizio estate gli agitò la massa di capelli biondo dorati; la gente notava prima quella, poi chi la possedeva. E lo fissava, di solito con piglio severo. In qualità. di triumviro di stanza a Roma, addossavano soprattutto a lui la colpa dei tempi duri… pane costoso, cibi supplementari monotoni, affitti elevati, tasche vuote. Ma a ogni occhiataccia lui ricambiava con il sorriso di Cesare, tanto potente da trasformare all’istante le occhiatacce in sorrisi di risposta.
Anche se Antonio amava girare in armatura persino a Roma, Ottaviano indossava sempre la toga orlata di porpora; con la sua toga aveva un aspetto minuto, sottile, aggraziato. Erano passati i tempi in cui portava i calzari con la suola alta. Roma adesso lo conosceva come l’erede di Cesare senza ombra di dubbio, e in molti lo definivano come lui si definiva: Divi Filius, figlio di un dio. Questo rimaneva il suo più grande vantaggio, anche a dispetto della sua impopolarità. Gli uomini potevano anche lanciare occhiatacce e mormorare, ma le mammine e le nonnine tubavano e andavano in brodo di giuggiole; Ottaviano era un politico troppo scaltro per non tener conto dell’influenza determinante delle mammine e delle nonnine.
Dalla Velia passeggiò fra le antiche colonne lanuginose di licheni di Porta Mugonia e risalì il Colle Palatino sul suo versante meno alla moda. Un tempo la sua casa apparteneva al celebre avvocato Quinto Ortensio Ortalo, rivale di Cicerone nei processi. Antonio aveva incolpato il figlio della morte del fratello Caio, e l’aveva fatto proscrivere. Cosa che non preoccupò il giovane Ortensio, morto in Macedonia, il suo cadavere gettato sul monumento di Caio Antonio. Come quasi tutta Roma, Ottaviano era ben consapevole che Caio Antonio era di una tale incompetenza che la sua scomparsa era stata una liberazione.
La domus Hortensia era una dimora vasta e lussuosa, anche se non delle dimensioni del palazzo di Pompeo Magno sulle Carinae. Quella se l’era arraffata Antonio; quando Cesare l’aveva saputo, aveva imposto al cugino il regolare pagamento di una somma. Alla morte di Cesare, i pagamenti erano cessati. Ma Ottaviano non voleva una casa così pomposa da definirsi palazzo, solo qualcosa di sufficientemente spazioso da fungere da ufficio e insieme da residenza. La domus Hortensia gli era stata aggiudicata nelle aste di proscrizione per due milioni di sesterzi, una frazione del suo reale valore. Cosa che capitava di frequente nelle aste di proscrizione, quando venivano vendute in blocco tante proprietà aristocratiche.
Sul versante alla moda del Palatino le case tutte ammassate si contendevano la vista sul Foro Romano, mentre Ortensio non era interessato alla posizione e al panorama. Lui era interessato allo spazio. Noto allevatore di pesci, possedeva stagni immensi dedicati alla carpa dorata e a quella argentata, e terreni e giardini più usuali nelle ville esterne alle Mura Serviane, come il palazzo che Cesare aveva fatto costruire per Cleopatra sotto il Gianicolo. I suoi terreni e giardini erano leggendari.
La domus Hortensia sorgeva in cima a un colle di cinquanta piedi affacciato sul Circo Massimo, sugli spalti del quale, nei giorni di parata o di corsa delle bighe, si stipavano più di 150.000 cittadini romani ad ammirare e acclamare. Non degnando neanche di uno sguardo il Circo, Ottaviano entrò in casa passando dal giardino e dagli stagni retrostanti, procedendo in un vasto salone che Ortensio non aveva mai utilizzato, tanto era infermo quando l’aveva fatto aggiungere.
Ottaviano apprezzava molto la struttura della casa, in quanto le cucine e gli alloggi della servitù si trovavano di lato, in un edificio separato che ospitava le latrine e i bagni a uso servile. I bagni e le latrine per il proprietario, la sua famiglia e gli ospiti erano interni al fabbricato principale e realizzati con marmi di valore inestimabile.
Come molti del genere sul Palatino, erano situati sopra un corso d’acqua sotterraneo che s’immetteva nelle immense fognature della Cloaca Maxima. Una delle ragioni principali per cui Ottaviano aveva acquistato quella domus, era una persona riservatissima, soprattutto se si trattava di evacuare intestini e vescica. Nessuno doveva vedere, nessuno doveva sentire! Questo valeva anche per il bagno, che faceva almeno una volta al giorno, e perciò le campagne militari erano un tormento reso sopportabile dal solo Agrippa, che trovava il modo di lasciargli l’intimità quando possibile. Perché fosse tanto pudico, Ottaviano non lo sapeva, visto che aveva un corpo armonioso; era solo che, senza abiti in perfetto ordine, gli uomini erano vulnerabili.
Il suo valletto gli andò incontro, dando segnali d’ansia; Ottaviano detestava la minima macchiolina sulla tunica o sulla toga, cosa che rendeva la vita difficile all’uomo, sempre impegnato con il gesso e l’aceto bianco per smacchiare.
«Sì, puoi prendere la toga» disse con aria assente, si sfilò l’indumento e uscì in un giardino interno del peristilio che ospitava le fontane più sontuose di Roma, con cavalli impennati dalla coda di pesce e Anfitrione alla guida di una biga a foggia di conchiglia. La pittura era magistrale, così viva che i capelli d’alghe della divinità acquatica luccicavano emanando bagliori verdastri, e la pelle era un reticolato di minuscole scaglie argentate. La scultura sorgeva al centro di una vasca tonda di marmo verde chiaro, costato a Ortensio dieci talenti per acquistarlo dalle nuove cave di Carrara.
Varcando due porte di bronzo decorate con bassorilievi di Lapiti e centauri, Ottaviano entrò in una sala che ospitava il suo studio su un lato e la stanza da pranzo sull’altro. Da qui s’inoltrò in un atrio enorme, con la vasca dell’impluvium sotto il compluvium del tetto che scintillava rispecchiando il sole in cielo. E infine superando altre due porte di bronzo salì sulla loggia, una vasta balconata all’aperto. A Ortensio piaceva l’idea della vegetazione come riparo dal sole forte, e aveva fatto erigere dei supporti su parte della proprietà, piantando quindi delle viti per farvele crescere sopra. Con il passare degli anni erano andate a festonare la struttura creando un riparo screziato di luce e colore da cui, in quella stagione, pendevano dei grappoli d’uva verdina.
Quattro uomini erano accomodati sulle ampie sedie tutt’attorno a un tavolo basso, con una quinta vacante a completare il cerchio. Sul tavolo campeggiavano due brocche e vari calici, di semplice terracotta apula… niente calici d’oro o boccali di vetro di Alessandria per Ottaviano! La brocca d’acqua era più capiente di quella del vino, che conteneva un leggerissimo e brillante bianco d’annata di Alba Fucentia.
Nessun intenditore o enologo avrebbe disdegnato quel vino, perché Ottaviano amava servire il meglio di ogni cosa. Quello che non tollerava era la stravaganza e tutto ciò che veniva importato. I prodotti italiani, diceva spesso a chi aveva orecchi per intendere, erano superlativi, e allora perché fare gli altezzosi ostentando vini di Chio, tappeti di Mileto, lane tinte a Ierapoli, arazzi di Corduba?
Uomo dal passo felpato, Ottaviano non diede alcun preavviso del suo arrivo e si soffermò per un istante sulla soglia a osservare gli astanti, il suo «consiglio degli anziani», come li chiamava Mecenate, scherzando sul fatto che Quinto Salvidieno, con i suoi trentuno anni, era il più vecchio del gruppo. A quei quattro uomini, e a loro soltanto, Ottaviano confidava i suoi pensieri; anche se non tutti. Quel privilegio era riservato ad Agrippa, suo coetaneo e fratello spirituale.
Marco Vipsanio Agrippa, ventitreenne, aveva in tutto e per tutto l’aspetto del nobile romano ideale. Era alto com’era stato Cesare, aveva muscoli possenti ma asciutti e un viso particolare ma bello, con sopracciglia folte sotto la fronte sporgente e il mento forte e fermo sotto la bocca severa. Difficile notare che i suoi occhi infossati fossero nocciola, per com’erano adombrati dalle ciglia folte. Eppure Agrippa era di natali così mediocri da far sghignazzare un certo Tiberio Claudio Nerone… chi aveva mai sentito parlare di una famiglia chiamata Vipsanius? Sannita, se non apula o calabra. Feccia italiana, in ogni caso. Solo Ottaviano ne apprezzava appieno la profondità e finezza d’intelletto, che spaziava dal comando delle armate come generale, alla costruzione di ponti e acquedotti, all’invenzione di macchinari e strumenti per facilitare il lavoro. Quell’anno era pretore urbano di Roma, responsabile di tutte le cause civili e dell’assegnazione delle cause penali alle varie corti. Un lavoro pesante, ma non abbastanza da soddisfare Agrippa, che si era assunto anche le responsabilità degli edili. Tali autorità avrebbero dovuto occuparsi degli edifici e dei servizi di Roma; apostrofandoli come un branco di spregevoli scansafatiche, Agrippa si era preso carico delle risorse idriche e del sistema fognario, con enorme sgomento delle compagnie cui la città ne appaltava l’amministrazione.
Aveva serie intenzioni di adoperarsi per impedire l’intasamento delle fognature ogni volta che il Tevere straripava, ma temeva di non potercela fare quell’anno, essendo necessaria una scrupolosa mappatura di miglia e miglia di fognature e canali di scolo.
In ogni caso, era riuscito a effettuare qualche intervento sull’Aqua Marcia, il miglior acquedotto di Roma, e ne stava facendo costruire un altro, l’Aqua Julia. Il sistema idrico di Roma era il migliore del mondo, ma la densità di popolazione della città aumentava sempre di più e il tempo era sempre di meno.
Era un uomo di Ottaviano sino alla morte, non ciecamente fedele ma con intelligenza; conosceva i punti deboli di Ottaviano così come i suoi punti di forza, e pativa per lui come Ottaviano non pativa per sé. Non poteva essere questione di ambizione. A differenza di quasi tutti gli Uomini Nuovi, Agrippa era profondamente convinto che doveva essere Ottaviano, con la nascita, a mantenere la supremazia. Il suo ruolo era quello di fides Achates, e sarebbe stato sempre disponibile per Ottaviano. Che l’avrebbe elevato ben oltre la sua condizione sociale: quale miglior destino di essere il secondo uomo di Roma? Per Agrippa, era più di quanto meritasse un uomo nuovo.
Caio Cilnio Mecenate, trent’anni, era di antichissima stirpe etrusca; i membri della sua casata erano signori di Arretium, un fervente porto fluviale sull’ansa dell’Arno al crocevia fra la Via Annia, la Via Cassia e la Via Clodia che collegavano Roma alla Gallia Cisalpina. Per ragioni note solo a lui aveva abbandonato il nome di famiglia, Cilnio, per farsi chiamare semplicemente Caio Mecenate. La sua passione per i piaceri della vita trapelava dal fisico leggermente sovrappeso, anche se era in grado, se necessario, d’intraprendere dei viaggi logoranti per Ottaviano. Aveva il viso un filo ranocchiesco, perché gli occhi azzurri sporgevano leggermente… exophthalmia, come la chiamavano i greci.
Celebre per la sua arguzia e le doti di narratore, aveva una mente aperta e profonda come quella di Agrippa, ma in maniera differente: Mecenate amava la letteratura, l’arte, la filosofia, la retorica e collezionava non solo antiche porcellane ma anche nuovi poeti. Come Agrippa osservava scherzando, non era in grado di comandare neanche una rissa in un lupanare, ma era in grado di fermarla. Oratori più sottili e persuasivi di Mecenate non si trovavano da nessuna parte, né uomini più adatti a tramare e complottare all’ombra degli scanni curuli. Come Agrippa, era sceso a patti con il predominio di Ottaviano, anche se i suoi motivi non erano puri come quelli di Agrippa. Mecenate era un’eminenza grigia, un diplomatico, un mazziere nei destini degli uomini. Era in grado d’individuare un particolare punto debole in un battibaleno e inserirvi le sue dolci e innocue paroline provocando una ferita più grave di quella inferta da un qualsiasi pugnale. Era pericoloso, Mecenate.
Il trentunenne Quinto Salvidieno era un uomo del Piceno, quel nido di demagoghi e seccatori politici che aveva partorito astri del calibro di Pompeo Magno e Tito Labieno. Ma non si era conquistato gli allori nel Foro Romano; se li era conquistati sul campo di battaglia, dove eccelleva. Attraente di viso e di corpo, aveva una zazzera di capelli rossi vivi che gli avevano guadagnato il suo cognomen, Rufo, e occhi azzurri scaltri e lungimiranti. Coltivava dentro di sé grandi ambizioni, e aveva legato la sua carriera alla coda della cometa di Ottaviano come via più breve per raggiungere la vetta. Di tanto in tanto ribolliva in lui il vizio picentino, quello di contemplare l’idea di voltar gabbana se la prudenza lo suggeriva. Salvidieno non aveva alcuna intenzione di finire nella fazione perdente, e a volte si domandava se Ottaviano avesse davvero tutte le doti necessarie per vincere la battaglia imminente.
Provava scarsa gratitudine, e nessuna lealtà, ma era riuscito a nasconderlo al punto che Ottaviano, per primo, non se lo sognava neanche. Aveva un ottimo autocontrollo, anche se in alcune occasioni si domandava se Agrippa sospettasse qualcosa, e perciò ogni volta che Agrippa era presente, badava alle proprie parole con estrema attenzione. Quanto a Mecenate… chi sapeva che cosa percepiva quel viscido aristocratico?
Tito Statilio Tauro, ventisette anni, era il più piccolo fra loro, e dunque quello che conosceva meno approfonditamente le idee e i progetti di Ottaviano. Che fosse anche lui un militare lo si intuiva dall’aspetto, alto, ben piantato, e con il viso piuttosto rovinato, l’orecchio sinistro gonfio, cicatrici su guancia e sopracciglio sinistri, il naso rotto. Ciò nonostante era un bell’uomo dai capelli color grano, gli occhi grigi e il sorriso spontaneo, che smentiva la sua fama di tiranno quando comandava le legioni.
Aborriva l’omosessualità e sotto il suo comando non avrebbe mai voluto nessuno con quelle inclinazioni, anche se di ottima famiglia. Come soldato era inferiore ad Agrippa e Salvidieno, ma non di molto; quel che gli mancava era il loro talento per l’improvvisazione. La sua lealtà era indubitabile, soprattutto perché era abbacinato da Ottaviano; le innegabili doti e l’intelligenza di Agrippa, Salvidieno e Mecenate non erano nulla a confronto dello straordinario intelletto dell’erede di Cesare.
«Salve» disse Ottaviano, raggiungendo la sedia vacante.
Agrippa sorrise. «Dove sei stato? A fare gli occhi dolci alla Signora Roma? Al Foro o sull’Aventino?» «Al Foro.» Ottaviano si versò acqua e vino e bevve avidamente, poi trasse un sospiro. «Stavo progettando ciò che farò quando avrò il denaro per rimettere in sesto la Signora Roma.» «Progettare è tutto quel che si può fare» disse Mecenate con tono amaro.
«Vero. Eppure, Caio, nulla è sprecato. Quel che progetto ora non dovrò progettarlo in seguito. Abbiamo saputo che cos’ha in mente il nostro console Pollione? E
Ventidio?» «Si sta spostando furtivamente in Gallia Cisalpina orientale» rispose Mecenate.
«Corre voce che fra breve marceranno lungo la costa adriatica per aiutare Antonio a schierare le sue legioni, raggruppate nei dintorni di Apollonia. Fra le sette legioni di Pollione, le sette di Ventidio e le dieci che ha con sé Antonio, riceveremo una pesante sconfitta.» «Non andrò in guerra contro Antonio» gridò Ottaviano.
«Non sarà necessario» replicò Agrippa con un sogghigno. «I loro uomini non combatteranno contro i nostri, mi ci gioco la vita.» «Sono d’accordo» intervenne Salvidieno. «Gli uomini ne hanno piene le tasche delle guerre che non comprendono. Che differenza c’è per loro fra il nipote di Cesare e il cugino di Cesare? Dopo essere stati uomini di Cesare in persona, non si ricordano altro. Grazie alla consuetudine che aveva Cesare di far girare i soldati per rinfoltire quella legione o assottigliare quell’altra, s’identificano con Cesare, e non con un’unità precisa.» «Si sono ammutinati» disse Mecenate, con tono duro.
«Solo di quelli della Nona possiamo dire si siano ammutinati direttamente contro Cesare, grazie a una dozzina di centurioni corrotti al soldo degli amici intimi di Pompeo Magno. Quanto agli altri, dà la colpa ad Antonio. È stato lui a indurli a farlo, nessun altro! Ha fatto ubriacare i loro centurioni e ha comprato i loro portavoce. Se li è lavorati!» disse Agrippa con tono sdegnato. «Antonio è un facinoroso, non un genio politico. Manca del tutto di sottigliezza. Perché altrimenti starebbe persino pensando di far sbarcare gli uomini in Italia? È insensato! Tu gli hai dichiarato guerra? O forse Lepido? Lo fa perché ha paura di te.»
«Antonio non è più facinoroso di Sesto Pompeo Magno Pio, per chiamarlo con il suo nome completo» rispose Mecenate, ridendo. «Ho sentito dire che Sesto ha mandato Libone, il tata di sua moglie, ad Atene a chiedere ad Antonio di unirsi a lui per schiacciarti.» «E tu come lo sai?» domandò Ottaviano, balzando sulla sedia.
«Come Ulisse, ho spie ovunque.» «Anch’io, ma questa è una novità per me. Che cos’ha risposto Antonio?» «Una sorta di no. Nessuna alleanza ufficiale, ma non si opporrà alle attività di Sesto a patto che siano dirette contro te.» «Premuroso da parte sua.» Quel viso di bellezza straordinaria si contrasse, negli occhi si disegnò un’espressione stremata. «È un bene, allora, che mi sia preso carico di dare a Lepido sei legioni e mandarlo a governare l’Africa. Antonio ha già ricevuto voce in merito? I miei agenti dicono di no.» «Anche i miei» replicò Mecenate. «Antonio non ne sarà compiaciuto, Cesare, questo è poco ma sicuro. Quando Fangone è stato ucciso, Antonio ha pensato di avere l’Africa nelle pieghe della sua toga. Intendo dire, chi pensa a Lepido? Ma adesso che è morto anche il nuovo governatore, Lepido subentrerà. Con le quattro legioni d’Africa e le sei che si è portato dietro, Lepido è diventato un forte partecipante al gioco.» «Lo so!» ribatté bruscamente Ottaviano, infastidito. «In ogni modo, Lepido disprezza Antonio molto più di quanto non disprezzi me. Manderà il grano in Italia quest’autunno.» «Con la perdita della Sardegna, ne avremo bisogno» disse Tauro.
Ottaviano rivolse lo sguardo ad Agrippa. «Siccome non abbiamo navi, dobbiamo farne costruire qualcuna. Agrippa, voglio che tu abbandoni le tue insegne d’ufficio e intraprenda un viaggio per tutta la penisola da Tergeste sino alla Liguria.
Commissionerai delle ottime e solide galee da guerra. Per battere Sesto, abbiamo bisogno di flotte.» «E come le pagheremo, Cesare?» domandò Agrippa.
«Con l’ultimo fasciame.» Una risposta criptica che per gli altri tre non significava nulla, ma che era chiara e cristallina per Agrippa, che annuì. «Fasciame» era il nome in codice che Ottaviano e Agrippa usavano a proposito del fondo di guerra di Cesare.
«Libone è tornato da Sesto a mani vuote, e Sesto si è, insomma, offeso. Non tanto da cominciare a perseguitare Antonio, ma si è offeso comunque» disse Mecenate. «Libone non gradisce Antonio ad Atene come non lo gradiva altrove, e così adesso Libone è un nemico che sparge veleno su Antonio all’orecchio di Sesto.» «Che cos’ha offeso Libone in particolare?» domandò Ottaviano incuriosito.
«Visto che Fulvia non c’è più, credo che sperasse di assicurare un terzo marito alla sorella. Cosa c’è di più saggio di un matrimonio per cementare un’alleanza? Povero Libone! Le mie spie dicono che ha agitato l’esca in tutti i modi possibili. Ma l’argomento non è mai stato sollevato, e Libone è salpato per tornarsene ad Agrigento del tutto deluso.» «Mmm.» Le sopracciglia dorate si contrassero, le ciglia folte e bionde calarono sugli occhi splendidi di Ottaviano. Di colpo si batté le mani sulle ginocchia e assunse uno sguardo determinato. «Mecenate, prepara i bagagli! Ti voglio ad Agrigentum in visita a Sesto e Libone.» «A quale scopo?» domandò Mecenate, disdegnando la missione.
«Il tuo scopo sarà quello di raggiungere una tregua con Sesto che permetta all’Italia di avere il grano quest’autunno, e a un prezzo ragionevole. E farai tutto il necessario per raggiungere questo scopo, intesi?» «Anche se ci sarà di mezzo un matrimonio?» «Sì, anche.» «Lei ha trent’anni, Cesare. C’è una figlia, Cornelia, quasi in età da marito.» «Non m’importa di quanti anni abbia la sorella di Libone! Le donne sono tutte fatte allo stesso modo, che cosa importa l’età? Almeno non avrà la tara di quella sgualdrina di Fulvia.» Nessuno commentò sul fatto che, dopo due anni, Fulvia si era vista rimandare la figlia virgo intacta. Ottaviano aveva sposato la ragazza per ammansire Antonio, ma non aveva mai giaciuto con lei. Ma questo non si sarebbe potuto verificare con la sorella di Libone. Ottaviano avrebbe dovuto giacere con lei, e preferibilmente generando dei figli. Per tutto ciò che riguardava la carne; era un grande puritano come Catone il Censore, quindi meglio che Scribonia non fosse né brutta né licenziosa. Tutti fissarono il pavimento in mosaico e finsero di essere sordi, muti e ciechi.
«E se Antonio provasse a sbarcare a Brundisium?» domandò Salvidieno, per cambiare leggermente argomento.
«Brundisium è quasi completamente fortificata, non permetterà a una sola nave da trasporto truppe di superare la catena del porto» disse Agrippa. «Ho seguito di persona i lavori di fortificazione di Brundisium, lo sai, Salvidieno.» «Ci sono altri posti dove può sbarcare.» «E indubbiamente lo farà, ma tutte quelle truppe?» Ottaviano aveva lo sguardo sereno. «In ogni caso, Mecenate, voglio che ritorni da Agrigentum in fretta e furia.» «I venti sono contrari» rispose Mecenate, con tono desolato. Chi aveva voglia di trascorrere parte dell’estate in quel pozzo nero della roccaforte siciliana di Sesto Pompeo ad Agrigentum?
«Ragione di più per tornare a casa in fretta. Quanto a come arrivarci… rema!
Prendi un cisium sino a Puteoli e affitta la nave più veloce e i migliori rematori sulla piazza. Pagali il doppio della loro tariffa di tratta. Subito, Mecenate, subito!» E così il gruppo si separò; restò solo Agrippa.
«Qual è il tuo ultimo conto delle legioni di cui disponiamo per opporci ad Antonio?» «Dieci, Cesare. Ma non cambierebbe nulla anche se ne avessimo solo tre o quattro.
Nessuna fazione combatterà. Io continuo a ripeterlo, ma nessuno mi ascolta a parte te e Salvidieno.» «Io ti ascolto perché in questo fatto risiede la nostra salvezza. Rifiuto di ritenermi sconfitto» disse Ottaviano. Sospirò, e sorrise con amarezza. «Oh, Agrippa, spero che quella donna di Libone sia tollerabile! Non ho molta fortuna con le mogli.» «Erano state scelte da qualcun altro, dei meri calcoli politici. Un giorno, Cesare, sceglierai una donna da te, e non sarà una Servilia Vatia o una Clodia. O, come sospetto, una Scribonia Libone, in caso il patto con Sesto andasse a buon fine.» Agrippa si schiarì la gola, sembrava a disagio. «Mecenate lo sapeva, ma ha lasciato che fossi io a comunicarti la notizia giunta da Atene.» «Notizia? Quale notizia?» «Fulvia si è tagliata le vene.» Per un lungo istante Ottaviano non disse nulla, si limitò a scrutare il Circo Massimo con aria così assorta, che Agrippa ipotizzò fosse andato in un altro mondo.
Che accozzaglia di contraddizioni era Cesare. Persino fra sé Agrippa non pensava a lui come Ottaviano; era stato il primo a chiamare Ottaviano con il nome d’adozione, anche se adesso lo facevano tutti i suoi partigiani. Nessuno sapeva essere più freddo, duro, o spietato; eppure, guardandolo ora, era evidente che stava soffrendo per Fulvia, una donna che aveva disprezzato.
«Faceva parte della storia di Roma» disse infine Ottaviano, «e meritava una fine migliore. Le sue ceneri sono tornate a casa? Ha una tomba?» «Per quanto ne so, nessuna delle due cose.» Ottaviano si alzò. «Parlerò con Attico. Fra tutti e due, le daremo un’adeguata sepoltura, come si addice al suo rango. Non sono in tenera età i figli che ha avuto da Antonio?» «Antillo ha cinque anni, Iullo due.» «Allora chiederò a mia sorella di occuparsi di loro. Tre dei suoi non le bastano, Ottavia ha sempre avuto in custodia i figli di qualcun altro.» Compresa, pensò con tristezza Agrippa, la sorellastra Marcia. Non dimenticherò mai quel giorno sulle alture di Petra quando stavamo andando incontro a Bruto e Cassio… e Cesare era seduto con il volto rigato di lacrime, a piangere la morte di sua madre. Ma lei non era morta! È diventata moglie del fratellastro di lui, Lucio Marcio Filippo. Un’altra delle sue contraddizioni, il fatto che possa soffrire per Fulvia mentre finge che la madre non esista. Oh, io so perché. Lei aveva abbandonato le gramaglie vedovili da un mese soltanto, quando aveva avviato una relazione con il figliastro.
Tutto sarebbe potuto restare in sordina, se lei non fosse rimasta incinta. Quel giorno, a Petra, Cesare aveva ricevuto una lettera dalla sorella, che lo pregava di comprendere la situazione difficile della madre. Ma lui non l’avrebbe fatto. Ai suoi occhi, Azia era una meretrice, una donna immorale indegna di essere la madre del figlio di un dio. E così aveva costretto Azia e Filippo a ritirarsi nella villa di quest’ultimo a Miseno, e aveva impedito loro l’ingresso a Roma. Un editto che non ha mai revocato, anche se adesso Azia è malata e la sua bambina membro permanente della nidiata di Ottavia. Un giorno tutto ciò tornerà a tormentarlo, anche se lui non lo vede, non più di quanto abbia mai posato gli occhi sulla sua sorellastra. Una bambina bellissima, bionda come tutti i Giuliani, nonostante il padre così scuro.
Poi, dalla Gallia Transalpina, giunse una lettera che distolse Ottaviano da ogni pensiero della moglie morta, e posticipò la data di un matrimonio che Mecenate stava organizzando per lui ad Agrigentum.
«Stimato Cesare, diceva, ti scrivo per informarti che il mio amato padre Quinto Fufio Caleno è morto a Narbo. Lo so, aveva cinquantanove anni, ma era in buona salute. Poi si è ammalato. Se ne è andato nel giro di un istante. In qualità di suo capo legato, adesso ho la responsabilità di undici legioni di stanza in tutta la Gallia Transalpina; quattro ad Agedincum, quattro a Narbo, e tre a Glanum. Di questi tempi i Galli sono tranquilli, dopo che lo scorso anno mio padre ha soffocato una rivolta fra gli Aquitani, ma ho paura a pensare che cosa potrebbe succedere ancora se i Galli venissero a sapere del mio comando e della mia inesperienza. Mi sono sentito in dovere di informarne te, anziché Marco Antonio.
Ti prego di inviarmi un nuovo governatore, uno che abbia le doti necessarie a mantenere la pace sul posto. Preferibilmente in fretta, perché vorrei riportare le ceneri di mio padre a Roma di persona.»
Ottaviano lesse e rilesse quel comunicato piuttosto succinto, con il cuore che gli danzava in petto. Per una volta, era una danza allegra. Finalmente un capriccio del fato che lo favoriva! Chi avrebbe mai potuto pensare che sarebbe morto Caleno?
Mandò a chiamare Agrippa, impegnato a rassegnare il suo mandato di pretore urbano così da poter viaggiare per lunghi periodi; il pretore urbano non poteva assentarsi da Roma per più di dieci giorni.
«Basta con la minutaglia!» gridò Ottaviano, porgendogli la missiva. «Leggila e rallegrati!» «Undici legioni di veterani!» Agrippa trasse un respiro profondo, comprendendo subito la portata dell’evento. «Devi raggiungere Narbo prima che Pollione e Ventidio ti battano sul tempo. Hanno poche miglia da coprire, quindi prega che la notizia non gli arrivi in fretta. Il giovane Caleno non vale la stringa del calzare del padre, se c’è qualcosa su cui fare affidamento.» Agrippa agitò il foglio di carta. «Immagina, Cesare! La Gallia Transalpina sta per caderti in grembo senza neanche alzare con rabbia un pilum.» «Porteremo con noi Salvidieno» disse Ottaviano.
«È una cosa saggia?» Gli occhi grigi di Ottaviano assunsero un’espressione sbigottita. «Cosa ti fa dubitare della mia saggezza in merito?» «Non saprei dirlo con esattezza, a parte il fatto che governare la Gallia Transalpina è un grande comando. Potrebbe dare alla testa a Salvidieno. Almeno presumo tu intenda assegnare il comando a lui.» «Preferiresti fosse assegnato a te? È tuo se lo vuoi.» «No, Cesare, non lo voglio. È troppo lontano dall’Italia e da te.» Sospirò e scrollò le spalle con aria sconfitta. «Non mi viene in mente nessun altro. Tauro è troppo giovane, e non ci si può fidare che gli altri trattino saggiamente con i Bellovaci o i Suebi.» «Salvidieno andrà benissimo» disse Ottaviano con tono fiducioso, e diede dei colpetti sul braccio dell’amico più caro. «Partiremo per la Gallia Transalpina all’alba di domani, e viaggeremo come fece mio padre il dio, con cisia di quattro muli al galoppo. Ciò significa che prenderemo la Via Emilia e la Via Domizia. Per essere certi di non avere difficoltà a requisire con frequenza dei muli freschi, porteremo con noi uno squadrone di cavalleria. germanica.» «Dovrai assumere una guardia del corpo a tempo pieno, Cesare.» «Non adesso, sono troppo occupato. Inoltre, non ho il denaro.»
Quando Agrippa se ne fu andato, Ottaviano attraversò a piedi il Palatino sino al Clivus Victoriae e alla domus di Caio Claudio Marcello Minore, che era suo cognato.
Console inadeguato e inconcludente nell’anno in cui Giulio Cesare aveva passato il Rubicone, Marcello era fratello e cugino primo dei due uomini che avevano disprezzato irragionevolmente Cesare. Era entrato furtivamente in Italia mentre Cesare combatteva la guerra contro Pompeo Magno e, dopo che Cesare aveva vinto, era stato ricompensato con la mano di Ottavia. Per Marcello, quell’unione era una combinazione d’amore e di convenienza; un’unione matrimoniale con la famiglia di Cesare significava protezione per lui e per l’ingente patrimonio di Claudio Marcello, adesso tutto suo. E amava sinceramente la sposa, un gioiello inestimabile. Ottavia gli aveva dato una figlia, Marcella Maggiore, un figlio che tutti chiamavano Marcello e una seconda bambina, Marcella Minore, nota come Cellina.
La casa era pervasa da una quiete innaturale. Marcello era molto malato, al punto che la sua solitamente gentile consorte aveva impartito ferree disposizioni sulle chiacchiere e il parlottare dei servi.
«Come sta?» domandò Ottaviano alla sorella, baciandola sulla guancia.
«Secondo i medici, è questione di giorni. L’escrescenza è estremamente maligna, gli sta divorando gli intestini.» I suoi occhioni acquamarina erano velati di lacrime, che cadevano a impregnarle il cuscino solo dopo che si era ritirata. Amava sinceramente quell’uomo scelto per lei dal patrigno con la piena approvazione del fratello; i Claudii Marcellii non erano patrizi, ma di un’antichissima e nobilissima stirpe plebea, il che rendeva Marcello Minore un marito adeguato per una donna giuliana. Era stato Cesare a non apprezzare quell’uomo, Cesare a disapprovare quell’unione.
Lei era diventata sempre più bella, pensò il fratello, desiderando poter condividere il suo dolore. Anche se aveva acconsentito al matrimonio, non si era mai affezionato molto all’uomo che possedeva la sua adorata Ottavia. Inoltre, aveva dei progetti, e la morte di Marcello Minore tendeva a favorirli. Ottavia non avrebbe mai superato quella perdita. Più vecchia di lui di quattro anni, aveva l’aspetto tipico dei Giuliani: capelli dorati, occhi screziati d’azzurro, zigomi alti, bocca incantevole e un’espressione di calma radiosa che attirava le persone. Cosa più importante, possedeva abbondantemente la celebre dote dispensata a quasi tutte le donne giuliane: rendeva felici i suoi uomini.
Cellina era appena nata e Ottavia la stava allattando di persona, una gioia che non avrebbe ceduto a nessuna balia. Ma questo la obbligava a uscire a malapena, e spesso doveva assentarsi in presenza di visitatori. Come il fratello, Ottavia era pudica sino a sfiorare il moralismo, non si sarebbe mai scoperta il seno per allattare di fronte a un uomo che non fosse il marito. Ennesima ragione per cui Ottaviano l’amava. Per lui era la personificazione della Dea Roma, e quando fosse divenuto il padrone indiscusso di Roma, aveva intenzione di erigere sulle pubbliche piazze delle statue che la raffiguravano, onorificenza non concessa alle donne.
«Posso vedere Marcello?» domandò Ottaviano.
«Ha detto niente visitatori, neanche tu.» Il suo volto si contrasse. «È per orgoglio, Cesare, l’orgoglio di un uomo scrupoloso. Nelle sue stanze c’è cattivo odore, non importa quanto i servi strofinino, o quanti bastoncini d’incenso io bruci. I medici lo definiscono l’odore della morte e dicono che non si può eliminare.» La prese fra le braccia, le baciò i capelli. «Carissima sorella, c’è qualcosa che posso fare?» «Nulla, Cesare. Tu conforti me, ma non c’è nulla che conforti lui.» Inutile; avrebbe dovuto essere brutale. «Devo allontanarmi per circa un mese» disse.
Lei boccheggiò. «Oh! Devi proprio? Non potrà sopravvivere oltre la metà del mese!» «Sì, devo.» «Chi organizzerà il funerale? Chi troverà gli uomini addetti alle pompe funebri?
L’uomo giusto per pronunciare il discorso funebre? La nostra famiglia è diventata così piccola! Guerre, omicidi… Mecenate, magari?» «Si trova ad Agrigentum.» «Allora chi c’è qui? Domizio Calvino? Servilio Vazia?» Le alzò il mento per guardarla dritta negli occhi, con la bocca severa, l’espressione di un sottile dolore. «Penso che dovrà essere Lucio Marcio Filippo» disse risolutamente. «Io non lo sceglierei mai, ma dal punto di vista sociale è l’unico che non farà parlare Roma. Siccome nessuno crede alla morte di nostra madre, che cosa può importare? Gli scriverò per dirgli che può tornare a Roma, e prendere residenza nella casa di suo padre.» «Sarà tentato di rinfacciarti l’editto.» «Ah! Non lui! Si sottometterà. Ha sedotto la madre del triumviro Cesare divi filius!
È solo grazie a lei che ha salvato la pelle. Oh, quanto mi piacerebbe inventarmi un’accusa di tradimento e usarla come stuzzichino per il suo palato di epicureo!
Anche la mia pazienza ha un limite, come ben sa. Si sottometterà» ripeté Ottaviano.
«Ti piacerebbe vedere la piccola Marcia?» domandò Ottavia con voce tremante. «È dolcissima, Cesare, davvero!» «No, non voglio!» ribatté Ottaviano bruscamente.
«Ma è nostra sorella! Ci sono dei legami di sangue, Cesare, anche dalla parte marciana. La nonna del divo Giulio era marciana.» «Non me ne importa, neanche se fosse Giunone!» disse furioso Ottaviano, e uscì ad ampie falcate.
Oh, caro, oh caro! Se n’era andato prima di potergli dire che, almeno per il momento, i due figli che Fulvia aveva avuto da Antonio erano andati ad aggiungersi alla sua nidiata di bambini. Quando era andata a trovarli era rimasta sconcertata nel vedere i due piccoli senza la minima tutela e che Curione, di dieci anni, era diventato feroce. Ebbene, lei non aveva l’autorità di prendere sotto la propria ala Curione e renderlo mansueto, ma poteva prendere Antillo e Iullo per un semplice atto di cortesia. Povera, povera Fulvia! Lo spirito di un demagogo del Foro racchiuso in un involucro femminile. Pilia, l’amica di Ottavia, insisteva a dire che ad Atene Antonio aveva picchiato Fulvia, prendendola addirittura a calci, ma Ottavia non riusciva proprio a crederci. Dopo tutto conosceva bene Antonio, e le piaceva molto. In parte perché era molto diverso dagli altri uomini della sua vita; poteva essere spossante accompagnarsi soltanto a uomini intelligenti, sottili, subdoli. Vivere con Antonio doveva essere stata un’avventura, ma picchiare sua moglie? No, non l’avrebbe mai fatto! Mai.
Tornò nell’ala dei bambini a piangere in silenzio, attenta che Marcella, Marcello e Antillo, abbastanza grandi da accorgersene, non vedessero le sue lacrime. Eppure, pensò rallegrandosi, sarebbe stato meraviglioso tornare ad avere la madre nella sua vita! La madre soffriva di una grave malattia alle ossa, tale da averla costretta a mandare la piccola Marcia a Roma e da Ottavia. E invece in futuro sarebbe stata dietro l’angolo, con la possibilità di vedere le sue figlie. Ma quando avrebbe compreso Cesare? Sarebbe mai avvenuto? In un certo senso Ottavia pensava di no.
Per lui, la madre aveva commesso l’imperdonabile.
Poi con la mente tornò a Marcello; andò subito nella sua stanza. Quando a quarantacinque anni aveva sposato Ottavia, era un uomo nel fiore degli anni, snello, curato, erudito, bello alla maniera di Cesare. Gli mancava del tutto l’indole spietata degli uomini giuliani, ma aveva una certa astuzia, una furbizia che gli aveva permesso di eludere la cattura quando l’Italia era impazzita per Cesare il divo Giulio, e di contrarre uno splendido matrimonio che l’aveva portato nel campo di Cesare illeso. Per quello doveva ringraziare Antonio, e non l’aveva mai dimenticato. Ecco perché Ottavia conosceva Antonio, assiduo visitatore.
Adesso la bellissima moglie ventisettenne teneva fra le braccia un uomo rinsecchito, divorato dalla disidratazione provocata da quella cosa che gli rosicchiava e straziava gli organi vitali. Accanto al suo letto sedeva il suo schiavo preferito, Admeto, una mano stretta nell’artiglio di Marcello, ma quando Ottavia entrò Admeto si alzò repentino e le lasciò la sedia.
«Come sta?» mormorò lei.
«Dorme grazie allo sciroppo d’oppio, domina. Nient’altro lenisce il dolore, ed è un peccato. Gli obnubila la mente in maniera spaventosa.» «Lo so» disse Ottavia, sedendosi. «Adesso va’ a mangiare e dormire. Prima che te ne renda conto sarà di nuovo il tuo turno. Mi piacerebbe che permettesse a qualcun altro di darti il cambio, ma non vuole.» «Se io stessi facendo una morte così lenta e dolorosa, domina, aprendo gli occhi vorrei vedere sopra di me un viso che desidero.» «Esatto, Admeto. Adesso, va’, ti prego. Mangia e dormi. Sappi che nel suo testamento ti ha affrancato, me l’ha detto. Sarai Caio Claudio Admeto, ma spero che resterai con me.» Troppo commosso per parlare, il giovane greco baciò la mano di Ottavia.
Le ore passavano, il silenzio rotto solo da una balia che le portava Cellina da allattare. Fortunatamente era una bambina buona, non strillava neanche se affamata.
Marcello continuava a dormire, inconsapevole.
Poi si riscosse e aprì gli occhi scuri offuscati, che si schiarirono quando la vide.
«Ottavia, amore mio!» gracchiò.
«Marcello, amore mio» disse lei con un sorriso radioso, alzandosi a prendere un calice di vino diluito dolce. Lui lo sorbì con una cannuccia scavata, non molto. A quel punto lei portò il bacile d’acqua e un panno. Gli scostò la coperta di lino dal corpo ormai pelle e ossa, gli tolse il pannuccio sporco, e prese a lavarlo con mano leggera come una piuma, rivolgendogli parole dolci. Non importa in quale punto della stanza lei si trovasse, lui la seguiva dappertutto con gli occhi, ardenti d’amore.
«I vecchi non dovrebbero sposare le giovinette» disse.
«Non sono d’accordo. Se le giovinette sposassero i giovani, non crescerebbero o non imparerebbero nulla se non cose banali, perché avrebbero tutti e due la stessa inesperienza.» Portò via il bacile. «Ecco! Ti senti meglio?» «Sì» mentì lui, poi fu assalito dalla testa ai piedi da uno spasmo improvviso, un rictus d’agonia che gli pulsava nei denti. «Oh, Giove! Giove! Che dolore, che dolore!
Il mio sciroppo, dov’è il mio sciroppo?» Così lei gli somministrò lo sciroppo d’oppio e tornò a sedersi e a guardarlo dormire finché Admeto non giunse a darle il cambio.
Mecenate trovò la sua missione facilitata dal fatto che Sesto Pompeo si era offeso per la reazione di Marco Antonio alla sua proposta. «Pirata» nientemeno! Disposto ad accettare un’equivoca cospirazione per tormentare Ottaviano, ma non a dichiarare un’alleanza pubblica. «Pirata» non era l’opinione che Sesto Pompeo aveva di sé; non l’aveva avuta in passato, né l’avrebbe avuta in futuro. Dopo aver scoperto che gli piaceva andare per mare e comandare tre o quattrocento navi da guerra, si vedeva come un Cesare marittimo, incapace di perdere una sola battaglia. Sì, imbattibile sulle onde e gran pretendente al titolo di primo uomo di Roma. Sotto questo aspetto temeva sia Antonio sia Ottaviano, pretendenti ancora più grandi di lui. Quello di cui aveva bisogno era un’alleanza con uno di loro contro l’altro, per ridurre il numero dei pretendenti. Da tre a due. A dirla tutta non aveva mai incontrato Antonio, non aveva mai avuto possibilità di trovarsi nella folla fuori dalle porte del Senato quando Antonio aveva tuonato contro i repubblicani in qualità di arrendevole tribuno della plebe di Cesare. Un sedicenne aveva di meglio da fare, e Sesto non aveva inclinazioni politiche, allora e adesso. E invece aveva incontrato Ottaviano una volta, in un porticciolo del collo dello stivale d’Italia, e aveva trovato un formidabile nemico nei panni di un ragazzo dal viso delicato di vent’anni, mentre lui ne aveva venticinque.
Guardando Ottaviano, la prima cosa che l’aveva colpito era il fatto di aver di fronte un innato fuorilegge che non si sarebbe mai messo nella posizione di farsi dichiarare fuorilegge. Avevano patteggiato un po’, poi Ottaviano si era rimesso in marcia per Brundisium mentre Sesto aveva preso il mare. Da allora erano mutate le alleanze; Bruto e Cassio erano sconfitti e morti, il mondo apparteneva ai triumviri.
Non era riuscito a credere alla scarsa lungimiranza di Antonio nella scelta di concentrarsi in Oriente; chiunque avesse un briciolo d’intelligenza si sarebbe accorto che l’Oriente era una trappola, con un’esca dorata che nascondeva un terribile amo uncinato. Il dominio del mondo sarebbe andato all’uomo che controllava l’Italia e l’Occidente, e quello era Ottaviano. Naturalmente il suo era il compito più difficile, il più impopolare, ed ecco perché Lepido, consegnate le sei legioni di Antonio a Lucio, se l’era filata in Africa, a fare il gioco dell’attesa e a radunare altre truppe. Un altro idiota. Sì, bisognava temere di più Ottaviano perché non si era tirato indietro nell’intraprendere il compito più difficile.
Se avesse acconsentito a una formale alleanza, Antonio avrebbe reso più semplice a Sesto la corsa per diventare il primo uomo di Roma. E invece no, lui si rifiutava di allearsi con un pirata!
«Dunque le cose restano come sono» disse Sesto a Libone, gli occhi blu scuri duri come la pietra. «Ci vorrà solo più tempo a logorare Ottaviano.»
«Mio caro Sesto, tu non logorerai mai Ottaviano» disse Mecenate, spuntando ad Agrigentum qualche giorno più tardi. «Non ha punti deboli su cui puoi lavorare.» «Gerrae!» ribatté bruscamente Sesto. «Tanto per cominciare, non possiede navi e ammiragli degni di questo nome. Te lo immagini mandare un liberto greco effeminato come Helenus a strapparmi la Sardegna? È qui da me, a proposito. Sano e salvo. Navi e ammiragli… due punti deboli. Tre, non possiede denaro. Nemici di ogni estrazione sociale… e sono quattro. Devo continuare?» «Questi non sono punti deboli, sono mancanze» esclamò Mecenate, assaporando un boccone di gamberetti. «Oh, sono squisiti! Perché sono molto più gustosi di quelli che mangio a Roma?» «Acque più sabbiose, migliori terreni dove trovare cibo.» «Te ne intendi di mare.» «Quanto basta da sapere che lì Ottaviano non può battermi, anche se trovasse delle navi. Organizzare una battaglia navale è un’arte in sé, e si dà il caso che in quel campo io sia il migliore di tutta la storia di Roma. Mio fratello Gneo era superbo, ma non ha la mia classe.» Sesto si adagiò alla sedia e assunse uno sguardo compiaciuto.
Che cos’aveva quella generazione di giovani? si domandò affascinato Mecenate. A scuola ci hanno insegnato che non sarebbe mai esistito un altro Scipione Africano, un altro Scipione Emiliano, ma erano tutti e due di generazioni diverse, unici nella loro epoca. Oggi non è così. Credo che ai giovani d’oggi sia stata data la possibilità di mostrare ciò di cui sono capaci perché tanti quarantenni e cinquantenni sono morti o in esilio perpetuo. L’esemplare che ho di fronte non ha ancora trent’anni.
Sesto si riscosse dal suo autocompiacente sogno a occhi aperti. «Devo dire, Mecenate, che sono deluso che il tuo signore non sia venuto a trovarmi di persona. È troppo importante?» «No, te l’assicuro» rispose Mecenate, più mellifluo che mai. «Ti manda le sue più profonde scuse, ma in Gallia Transalpina è successo qualcosa che rendeva obbligatoria la sua presenza laggiù.» «Sì, ho saputo, probabilmente prima di lui. La Gallia Transalpina! Quella cornucopia di ricchezze sarà sua! Il meglio delle legioni di veterani, grano, prosciutti e carne di maiale salata, barbabietole da zucchero… Per non parlare della strada via terra per la Spagna, anche se la Gallia Cisalpina non è ancora sua. Ma lo sarà senza dubbio quando Pollione deciderà di lasciare le vesti consolari, anche se corre voce che non lo farà ancora per qualche tempo. Si dice che Pollione stia marciando con le sue sette legioni lungo la costa adriatica per assistere Antonio nel suo sbarco a Brundisium.»
Mecenate aveva l’aria sorpresa. «Perché Antonio dovrebbe aver bisogno di assistenza militare per sbarcare in Italia? In qualità di triumviro superiore, è libero di andare e venire a suo piacimento.» «No se si tratta di Brundisium. Perché i brindisini detestano tanto Antonio?
Sputerebbero sulle sue ceneri.» «È stato molto duro con loro l’anno precedente a Farsalo, quando il divo Giulio ce l’ha lasciato per passare sull’altra riva dell’Adriatico con le sue legioni» disse Mecenate, ignorando l’ombra sul volto di Sesto alla menzione della battaglia che aveva visto il padre sconfitto, il mondo cambiato. «Antonio sa essere irragionevole, e più che mai all’epoca, con il fiato sul collo del divo Giulio. Inoltre, trascurava la disciplina militare. Ha lasciato liberi i legionari di fare i loro porci comodi… stuprare, saccheggiare. Poi quando il divo Giulio l’ha eletto magister equitum ha sfogato un bel po’ della sua stizza per Brundisium su Brundisium.» «Capisco» disse Sesto, sogghignando. «In ogni caso, quando un triumviro si porta dietro tutto l’esercito dà un po’ l’idea di un’invasione.» «Una dimostrazione di forza, un segnale all’imperatore Cesare…» «Chi?» «L’imperatore Cesare. Noi non lo chiamiamo Ottaviano. E neanche Roma lo chiama così.» Mecenate assunse un’aria modesta. «Forse è per questo che Pollione non è venuto a Roma, anche se Roma l’ha eletto console.» «Ecco una notizia meno appetibile per l’imperatore Cesare di quella sulla Gallia Transalpina» disse Sesto con tono impertinente. «Pollione ha portato Enobarbo nella fazione di Antonio. Come sarà felice di questo l’imperatore Cesare!» «Oh, fazione, fazione» esclamò Mecenate, ma con tono spassionato. «L’unica fazione è quella di Roma. Enobarbo è una testa calda, come tu ben sai, Sesto. Lui non “appartiene” a nessuno se non a Enobarbo, e gode nel ruggire su e giù per quel piccolo tratto di mare giocando a fare Padre Nettuno. Senza dubbio questo comporta che, in futuro, anche tu avrai sempre più a che fare con Enobarbo.» «Non lo so» disse Sesto, con aria imperscrutabile.
«Per arrivare dritto al punto, quel rapace dai mille occhi e dalle mille lingue della Fama dice che di questi tempi non vai molto d’accordo con Lucio Staio Murco» disse Mecenate, rivolgendo la propria erudizione a un pubblico non ammirato.
«Murco vuole il comando congiunto» rispose Sesto prima di riuscire a mettere a freno la lingua. Era quello il guaio con Mecenate, induceva con l’inganno gli interlocutori a un rapporto intimo che, in un modo o nell’altro, lo trasformava da creatura di Ottaviano ad amico fidato. Infastidito per quell’imprudenza, Sesto cercò di cancellarla con una scrollata di spalle. «Certo che non può averlo, io non ho mai creduto nei comandi congiunti. A me le cose riescono perché prendo tutte le decisioni da solo. Murco è un pastore di capre apulo che si crede un nobile romano.» Senti chi parla, pensò Mecenate. Dunque con Murco siamo agli addii, eh? Il prossimo anno in questo periodo sarà morto, accusato di questa o quella violazione.
Questo giovane supponente e dissoluto non tollera i suoi pari, e da qui deriva la sua predilezione per gli ammiragli liberti. Il suo idillio con Enobarbo non durerà molto più di quanto impiegherà Enobarbo a dargli del villano picentino ripulito.
Tutte informazioni utili, ma non il motivo per cui si trovava lì. Abbandonando i gamberetti e la ricerca di notizie, Mecenate giunse al suo vero scopo, ovvero dire chiaro e tondo a Sesto Pompeo che doveva concedere una possibilità di sopravvivenza a Ottaviano e all’Italia. Per l’Italia, significava pance piene; per Ottaviano, significava tenersi stretto ciò che aveva.
«Sesto Pompeo» disse in tutta sincerità Mecenate due giorni più tardi, «non sono nella posizione di giudicare né te né nessun altro. Ma non puoi negare che in Sicilia i topi mangiano meglio della gente d’Italia, il tuo paese, del Piceno, dell’Umbria e dell’Etruria sino ad arrivare al Bruttium e alla Calabria. Patria della tua città, cui tuo padre ha dato lustro per tanto tempo. Nei sei anni successivi a Munda hai accumulato migliaia di milioni di sesterzi rivendendo grano, quindi non è il denaro che cerchi.
Ma se, visto che insisti, è per forzare il Senato e il popolo di Roma a restituirti la tua cittadinanza e tutti i relativi diritti, allora certo ti renderai conto che avrai bisogno di potenti alleati a Roma. A dire il vero, sono solo due persone a detenere il potere necessario per aiutarti… Marco Antonio e l’imperatore Cesare. Perché ti sei tanto fissato su Antonio, un uomo meno razionale, e oserei dire meno affidabile dell’imperatore Cesare? Antonio ti ha definito un pirata, non ha voluto ascoltare Lucio Libone quando hai tentato l’approccio. Mentre adesso è l’imperatore Cesare a tentare l’approccio. Non è una palese dimostrazione della sua sincerità, del suo riguardo nei tuoi confronti, del suo desiderio di aiutarti? Dalle labbra dell’imperatore Cesare non sentirai mai accuse calunniose di pirateria! Vota per lui! Antonio non è interessato, e questo è inopinabile. Se ci sono delle fazioni da scegliere, allora scegli quella giusta.» «D’accordo» disse Sesto, con tono infuriato. «Voterò per Ottaviano. Ma pretendo garanzie concrete che si adopererà per me in Senato e nelle Assemblee.» «L’imperatore Cesare lo farà. Che cosa ti soddisferebbe come prova della sua buona fede?» «Come reagirebbe all’idea di sposarsi con una mia parente?» «Ne sarebbe arcicontento.» «Non ha moglie, mi pare di capire.» «No. Nessuno dei suoi matrimoni è stato consumato. Era convinto che le figlie delle sgualdrine potessero diventare delle sgualdrine anche loro.» «Spero che con questa riesca a farselo rizzare. Mio suocero Lucio Libone ha una sorella, una vedova di assoluta rispettabilità. Puoi portarla per approvazione.» Gli occhi sporgenti di Mecenate si sgranarono ulteriormente, quasi le notizie su quella donna fossero un’elettrizzante sorpresa. «Sesto Pompeo, l’imperatore Cesare ne sarà onorato! So qualcosa sul conto di lei… ragguardevolmente idonea.» «Se il matrimonio andrà in porto, io permetterò alle flotte di grano africano di andare in porto. E venderò a tutta la concorrenza, a partire da Ottaviano sino al più piccolo commerciante, la mia farina a tredici sesterzi al modius.» «Numero sfortunato.» Sesto sogghignò. «Per Ottaviano, forse, ma non per me.» «Non si può mai dire» ribatté Mecenate con tono cortese.
Quando Ottaviano posò gli occhi su Scribonia ne rimase segretamente compiaciuto, anche se i pochi presenti alle loro nozze non l’avrebbero mai intuito dal suo contegno serio e dagli occhi vigili che non lasciavano mai trapelare le sue emozioni. Sì, ne era compiaciuto. Scribonia non aveva l’aria della trentatreenne, sembrava sua coetanea, ventitré anni da compiere. I capelli e gli occhi erano castani scuri, la pelle liscia chiara e opalescente, il volto grazioso, il fisico eccellente. Non aveva indossato i colori rosso fuoco e zafferano di una sposa vergine, ma aveva scelto diafani strati di rosa su una tunica color ciliegia. Dalle scarse parole che si scambiarono alla cerimonia, s’intuiva che non era timida, ma neanche una chiacchierona, e da ulteriori conversazioni successive lui scoprì che era erudita, di buone letture e che parlava il greco molto meglio di lui. Forse l’unica qualità che gli dava pensiero era la sua spiritosaggine. Non possedendolo di suo, Ottaviano temeva chi aveva uno spiccato senso dell’umorismo, soprattutto se si trattava di donne… come poteva essere sicuro che non ridessero di lui? Eppure, Scribonia non era certo incline a trovare ridicolo o particolarmente buffo un marito tanto superiore al suo rango come il figlio di un dio.
«Mi dispiace separarti da tuo padre» le disse.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Io no, Cesare. È un vecchio seccatore.» «Davvero?» domandò sbigottito. «Ho sempre creduto che, per una donna, separarsi dal proprio padre sia un colpo.» «Quel colpo c’è già stato due volte prima che arrivassi tu, Cesare, e ogni volta è meno doloroso. Ormai è più una pacca che uno schiaffo. Inoltre, non avrei mai immaginato che il mio terzo marito fosse un bellissimo giovane come te.» Ridacchiò.
«Il meglio in cui potessi sperare era un vispo ottantenne.» «Oh!» fu tutto ciò che riuscì a dire lui, annaspando.
«Ho sentito dire che tuo cognato Caio Marcello Minore è morto» esclamò lei, dispiaciuta per la confusione del giovane. «Quando dovrò porgere le mie condoglianze a tua sorella?» «Sì, Ottavia era dispiaciuta di non poter partecipare alle mie nozze, ma è sopraffatta dal dolore, dunque non lo so. Trovo gli eccessi emotivi un filino sconvenienti.» «Oh, non sono sconvenienti» disse lei con tono gentile, scoprendo in quel momento qualcosa in più sul conto di quell’uomo, e una parte di lei rimase sgomenta da ciò che scopriva. In un certo senso si era immaginata che Cesare fosse dello stampo di Sesto Pompeo… sfrontato, presuntuoso, immaturo, molto virile, un filo maleodorante. E invece aveva trovato la compostezza di un venerando consolare su una bellezza che, sospettava, avrebbe finito per tormentarla. I luminosi occhi d’argento ne affinavano l’aspetto sino a renderlo straordinario, ma non l’avevano guardata con desiderio. Anche lui era al terzo matrimonio, e se bisognava dar retta alla sua condotta nel rispedire le precedenti mogli intoccate dalle loro madri, quelle spose politiche erano state accettate per necessità e poi archiviate per essere rispedite nelle stesse condizioni in cui erano arrivate. Suo padre le aveva detto di aver fatto una scommessa con Sesto Pompeo: Sesto aveva puntato alto sul fatto che Ottaviano non sarebbe andato fino in fondo, mentre Libone riteneva che Ottaviano l’avrebbe fatto per il bene del popolo d’Italia. Così se il matrimonio fosse stato consumato e ne fosse stata fornita la prova, Libone avrebbe vinto una cospicua somma. La notizia della scommessa l’aveva fatta scoppiare in lacrime, ma lei conosceva già Ottaviano quanto bastava da sapere che non avrebbe osato parlargliene. Strano. Da quanto lei ne sapeva sul suo conto, suo zio il divo Giulio avrebbe condiviso la sua allegria. E invece nel nipote, neanche una scintilla.
«Potrai vedere Ottavia quando lo desideri» le stava dicendo, «ma preparati a lacrime e bambini.» Quella fu tutta la conversazione che riuscirono a tenere prima che le sue nuovi serventi la facessero accomodare nel letto di lui.
La casa era molto spaziosa e ricca di marmi dai colori sfavillanti, ma il suo nuovo proprietario non si era disturbato ad arredarla in maniera adeguata o ad appendere qualche dipinto sulle pareti nei luoghi palesemente adibiti allo scopo. Il letto era molto piccolo per una stanza da letto tanto grande. Lei non sapeva che Ortensio avesse orrore dei minuscoli cubicoli in cui dormivano i romani, e che quindi avesse voluto la sua camera da letto delle dimensioni di uno studio.
«Domani i tuoi servi t’insedieranno negli appartamenti a te riservati» disse lui, entrando nel letto nel buio pesto; aveva spento le candele con un soffio, sulla soglia.
Quella fu la prima prova del suo pudore innato, che lei avrebbe trovato difficile vincere. Dopo aver diviso il talamo nuziale con altri due uomini, si aspettava palpeggi frenetici, pungolii, pizzicotti, un assalto che lei ipotizzava avesse la funzione di suscitarle lo stesso desiderio, anche se non era mai stato così.
Ma quella non era la maniera di Cesare (lei doveva, doveva, doveva ricordarsi di chiamarlo Cesare!) Il letto era troppo stretto per non sentire il suo corpo nudo accanto al proprio, eppure lui non faceva alcun tentativo di toccarla altrimenti. D’improvviso, le salì sopra, con le ginocchia le allargò le gambe e introdusse il pene in un ricettacolo tristemente arido, tanto era impreparata. Ma questo non parve smontarlo; si impegnò alacremente sino a raggiungere un silenzioso climax, si alzò da lei e dal letto mormorando che doveva lavarsi, e lasciò la stanza. Quando non tornò lei rimase sdraiata in preda allo smarrimento, quindi chiamò un servitore e chiese la luce.
Lui era nel suo studio, seduto a un vecchio scrittoio consunto e ingombro di pergamene, fogli di carta sparsi sotto la mano destra, che stringeva un semplice e disadorno calamo di giunco. Quello di suo padre Libone era inguainato d’oro, con una perla in punta. Ma chiaramente a Ottaviano, Cesare, non interessavano quel genere di ostentazioni.
«Marito, ti senti bene?» domandò.
All’arrivo di un’altra luce lui aveva alzato lo sguardo; adesso le rivolse il sorriso più amorevole che lei avesse mai visto. «Sì» disse.
«Non ti sono piaciuta?» domandò.
«Niente affatto. Sei stata molto graziosa.» «Lo fai spesso?» «Che cosa?» «Ehm… ah… lavorare anziché dormire.» «Sempre. Adoro la pace e la tranquillità.» «E io ti ho disturbato. Scusami. Non si ripeterà più.» Lui chinò la testa con aria assente. «Buonanotte, Scribonia.»
Solo qualche ora più tardi alzò di nuovo la testa, ricordandosi di quel piccolo incontro. E pensò con enorme sollievo che la sua nuova moglie gli piaceva. Quella donna capiva i confini, e se fosse riuscito a stimolarla, il patto con Sesto Pompeo avrebbe retto.
Ottavia era del tutto diversa da come si aspettava, scoprì Scribonia quando andò a farle la visita di condoglianze. Con sua sorpresa, trovò la nuova cognata senza lacrime e allegra. Doveva averlo lasciato trapelare dallo sguardo, perché Ottavia rise e la fece accomodare su una sedia confortevole.
«Il piccolo Caio ti ha detto che ero prostrata dal dolore.» «Piccolo Caio?» «Cesare. Non riesco a perdere l’abitudine di chiamarlo piccolo Caio, perché io lo vedo così… come un caro bimbetto che mi sgambetta dietro dandomi il tormento.» «Gli vuoi molto bene.» «Da impazzire. Ma di questi tempi è così grande e importante che le sorelle maggiori e i loro “piccoli Cai” non vanno molto d’accordo. In ogni caso, tu sembri una donna sensata, quindi confido che non gli riferirai le mie parole sul suo conto.» «Sorda e cieca. Anche muta.» «La cosa vergognosa è che non ha mai avuto un’infanzia vera e propria. Era così piagato dall’asma che non poteva mescolarsi agli altri bambini o fare addestramento militare nel Campo Marzio.» Scribonia assunse uno sguardo vacuo.
«Asma? Che cos’è?» «Ansima sino a diventare nero in volto. A volte arriva quasi sul punto di morire.
Oh, è una cosa terribile a vedersi!» Dagli occhi di Ottavia trapelò un vecchio orrore familiare. «Il peggio si verifica quando c’è polvere nell’aria, o intorno ai cavalli per via del segato. Per questo Marco Antonio ha potuto dire che, a Filippi, il piccolo Caio si è nascosto nelle paludi e non ha dato alcun contributo alla vittoria. La verità è che c’era una siccità tremenda. Il campo di battaglia era una fitta nuvola di polvere e paglia secca… morte certa. L’unico posto in cui il piccolo Caio riuscì a trovare sollievo fu nel terreno paludoso fra la pianura e il mare. Per lui, aver dato l’impressione di evitare il combattimento è un dolore peggiore di quanto non sia per me la perdita di Marcello. E non lo dico a cuor leggero, credimi.» «Ma la gente capirebbe se soltanto lo sapesse!» gridò Scribonia. «Anch’io ho sentito quel pettegolezzo, e mi sono limitata a crederlo vero. Cesare non avrebbe potuto far pubblicare un libello o qualcosa di simile?» «Il suo orgoglio non gliel’ha permesso. E non sarebbe stato prudente. La gente non vuole dei magistrati passibili di morte prematura. E poi, Antonio l’ha preceduto.» Ottavia assunse un’aria abbattuta. «Non è un uomo malvagio, ma è così sano da non avere pazienza con chi è malato o delicato. Per Antonio, l’asma è tutta una finzione, un pretesto per giustificare la sua vigliaccheria. Siamo tutti cugini, ma siamo tutti diversi, e il piccolo Caio più di tutti. È disperatamente motivato. L’asma ne è un sintomo, come disse il medico egiziano che assisteva il divo Giulio.» Scribonia rabbrividì. «Che cosa farò se non riesce a respirare?»
«Probabilmente non lo vedrai mai così» disse Ottavia, non avendo difficoltà a notare che la sua nuova cognata si stava innamorando del piccolo Caio. Cosa che lei non poteva evitare ma che, comprensibilmente, era destinata a causare amare sofferenze. Scribonia era una donna incantevole, ma non tanto da poter affascinare né il piccolo Caio né l’imperatore Cesare. «Di solito a Roma il suo respiro è normale, a meno che non ci sia siccità. Quest’anno c’è stata alcione. Finché lui si trova qui non mi preoccupo, e neanche tu dovresti. Lui sa come comportarsi in caso abbia un accesso, e poi c’è sempre Agrippa.» «Il giovane severo che gli ha fatto da testimone alle nostre nozze.» «Sì. Non sembrano gemelli?» disse Ottavia con l’aria di essersi lambiccata il cervello per giungere alla soluzione di un rompicapo. «Fra loro non esiste rivalità.
Piuttosto, è come se Agrippa colmasse i vuoti del piccolo Caio. A volte, quando i bambini sono particolarmente discoli, vorrei potermi sdoppiare. Ebbene, il piccolo Caio ci è riuscito. Lui ha Marco Agrippa, l’altra sua metà.» Quando Scribonia lasciò la casa di Ottavia aveva incontrato i bambini, una tribù che Ottavia trattava come se fosse tutta frutto del suo ventre, e aveva saputo che la prossima volta che fosse venuta, ci sarebbe stata Azia. Azia, sua suocera. Come poteva Cesare fingere che sua madre fosse morta? Sino a che punto arrivavano il suo orgoglio e la sua superbia da non poter scusare la comprensibile manchevolezza di una donna altrimenti irreprensibile? Secondo Ottavia, la madre dell’imperatore Cesare divi filius non poteva assolutamente avere delle manchevolezze. Il suo atteggiamento era molto eloquente sulle aspettative che riponeva in una moglie.
Povere Servilia Vazia e Clodia, entrambe vergini, ma ostacolate dal fatto di avere delle madri moralmente inadeguate. Come del resto lui, ed era meglio che Azia fosse morta che non una prova vivente di ciò.
Eppure, camminando sino a casa fra due gigantesche e feroci guardie germaniche, aveva in mente solo il volto di lui. Sarebbe riuscita a farsi amare da lui? Oh, se solo fosse riuscita a farsi amare! Domani, decise, farò un’offerta a Giunone Sospita per avere una gravidanza, e a Venere Erucina per soddisfarlo nel talamo, e a Bona Dea per l’armonia uterina e a Vediove in caso sia in agguato la delusione. E a Spes, che è la Speranza.